L’EUROPA NON E’ UN BANCOMAT

L’EUROPA NON E’ UN BANCOMAT

Mer, 10/21/2020 - 08:15
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Per accedere ai fondi UE è necessaria capacità progettuale: le risorse sono disponibili ma vanno chieste nel modo giusto

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Torniamo a parlare d’Europa, un argomento che abbiamo trattato in più occasioni e sempre alla ribalta. È vero che la spinta propulsiva dei sovranisti sembra essersi affievolita negli ultimi mesi, ma è altrettanto vero che la polemica antieuropeista è sempre pronta a riaccendersi e riprendere quota.

Fra le due posizioni estreme di chi sostiene che l’Europa è all’origine di tutti i nostri guai e di chi invece ritiene che sia la nostra àncora di salvezza nei momenti di crisi (come l’attuale), non possiamo nascondere di provare maggiore simpatia per quest’ultima. Se avessimo avuto ancora la vecchia lira, vaso di coccio fra i vasi di ferro, quasi sicuramente non avremmo resistito né alla crisi del 2007 – quella del fallimento di Lehman Brothers – né agli scossoni della pandemia. Con molta probabilità avremmo assistito a scenari di tipo argentino, con fallimento dello Stato e perdita di credibilità e affidabilità sui mercati dei capitali. Un sistema come il nostro, caratterizzato da debito pubblico molto elevato, avrebbe avuto enormi difficoltà a trovare investitori che potessero finanziarlo acquistando titoli di Stato, con la diretta conseguenza dell’impossibilità di finanziare la spesa pubblica.

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Naturalmente si tratta di opinioni, non dimostrabili e ampiamente confutabili e, altrettanto naturalmente, l’Europa è tutt’altro che la panacea per tutti i mali o un meccanismo perfetto e al di sopra di ogni critica. Così come è vero che il peso dell’Italia, all’interno dell’Unione, è molto inferiore a quello di Francia e Germania.

Al di là della diatriba Europa sì/Europa no, decisamente inutile e spesso stucchevole, il vero problema dell’Italia è che non riusciamo ad ottenere tutti i potenziali benefici, in primo luogo finanziari, dalla nostra appartenenza all’Unione e non per colpa dell’Unione ma della nostra incapacità a parlare il suo linguaggio. Come dire, se la macchina non va bene, in questo caso dipende dall’autista. Se immaginiamo l’UE come uno strumento per realizzare i nostri obiettivi (in questo caso di crescita e sviluppo), possiamo paragonarla a un’automobile nella quale si sale per arrivare alla nostra destinazione. Ma se non sappiamo guidarla, certamente non arriveremo mai a destinazione e non possiamo darne la colpa alla macchina.

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Fuor di metafora, i fondi europei sono attivabili solo attraverso una procedura complessa che passa dalla predisposizione di progetti, dalla loro proposta agli organi decisionali della Commissione, dalla capacità di portarli avanti e dal controllo e monitoraggio dei risultati.

L’Europa non è un bancomat, dove – quando si ha bisogno di contanti – si digita un codice e si preleva. Per accedere ai fondi, dobbiamo presentare progetti credibili e dimostrare di saperli realizzare, rendendo poi il conto di come abbiamo utilizzato le risorse: per dialogare in modo fruttuoso con l’Unione, in altri termini, bisogna saper parlare il suo linguaggio ed è una cosa che non sappiamo fare.

Per dare un’idea dell’ordine di grandezza del problema, nell’ambito del solo Recovery Fund [1], l’Europa ha destinato all’Italia contributi a fondo perduto per 70 miliardi di Euro (e precisamente 44,7 per il 2021; 20,7 per il 2023 e il resto a seguire), una cifra enorme mai raggiunta in passato, alla quale potranno essere aggiunte altre risorse attivabili a titolo di prestito (loans), fra i quali il famigerato MES[2].

Non si tratta però di fondi già disponibili, ma solo stanziati, che verranno erogati all’esito favorevole dell’iter di valutazione dei progetti da finanziare, come si diceva sopra. Il Governo stima di poterne incassare entro la fine dell’anno prossimo 30 miliardi, ma sembra una previsione ottimistica. In una nota della scorsa settimana la Commissione Europea ha indicato come più probabile l’importo che verrà erogato all’Italia nel 2021 in soli 15 miliardi, neanche la metà di quelli stanziati e che il 40% dell’importo non arriverà prima di 4 anni, mentre occorreranno 6 o 7 anni per incassare tutto il disponibile.

La previsione è dovuta alla considerazione del comportamento dell’Italia rispetto all’accesso ai fondi “eurounitari[3]” negli ultimi 6 anni: in questo periodo il nostro paese è riuscito a mettere mano solo sul 40% dei fondi stanziati da Bruxelles, nonostante che la spesa pubblica abbia continuato a crescere. Infatti abbiamo reperito i mezzi finanziari soprattutto attraverso l’aumento del debito pubblico: certamente più facile emettere BTP che non fare progetti credibili.

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Ma allora non possiamo dare la colpa all’Europa: la colpa è solo nostra, della nostra incapacità di predisporre e attuare progetti credibili, e della nostra mancanza di visione strategica e di approccio costruttivo ai programmi dell’Unione Europea: è come se avessimo vinto un premio alla lotteria e per pigrizia non andiamo a ritirarlo; o come se avessimo in garage una Ferrari ma non abbiamo imparato a guidarla.

Ricorda un po’ la scenetta del compianto Massimo Troisi che chiede con insistenza alla Madonna di fargli vincere alla lotteria e alla fine la risposta che ottiene è: “Io ti posso anche aiutare, ma tu devi almeno comprare il biglietto…”

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E’ vero che la capacità progettuale non si improvvisa, ma è altrettanto vero che non possiamo dare ad altri colpe che sono solo nostre: per dialogare con le istituzioni europee è necessario imparare la loro lingua.

 

[1] Il Recovery Fund (letteralmente “Fondo di recupero”), detto anche  Next generation EU,  è un nuovo strumento europeo per la ripresa approvato dal Consiglio europeo straordinario del 21 luglio. I Capi di Stato e di governo europei hanno previsto di incrementare il bilancio su base temporanea tramite nuovi finanziamenti raccolti sui mercati finanziari per un ammontare pari a 750 miliardi di euro (390 di contributi a fondo perduto e 360 di prestiti).

[2] Del MES abbiamo parlato in modo specifico nell’articolo “Punt e MES” del 10/12/19 (cfr https://www.marcoparlangeli.com/2019/12/10/punt-e-mes)

[3] Brutto neologismo del gergo legalese che ha sostituito il termine “comunitario” dal momento che tecnicamente la Comunità non esiste più dopo il Trattato di Lisbona