IL DISASTRO DEL 60/40
È tempo di tornare a guardare le obbligazioni
Un classico suggerimento delle teorie di asset management è da sempre quello del portafoglio 60/40, ovvero suddividere gli investimenti per il 60% del totale in titoli obbligazionari e per il 40% in azioni. Nella sua semplicità, questa asset allocation basilare garantiva comunque una buona diversificazione in strumenti finanziari che generalmente avevano un andamento decorrelato, ovvero tale per cui se una delle due componenti avesse diminuito di valore a causa dell’andamento negativo dei prezzi sul mercato, l’altra sarebbe cresciuta e quindi l’avrebbe compensata.
Nel 2022 però l’andamento di questo portafoglio-tipo è stato disastroso. I tassi di interesse erano infatti ancora molto bassi (per un lungo periodo sono stati mantenuti molto vicini allo zero e in alcuni casi anche negativi, al fine di favorire un’uscita dalla crisi post-pandemia) ma le autorità monetarie avevano annunciato – e in parte avviato – una politica monetaria fortemente restrittiva al fine di combattere l’inflazione che stava crescendo oltre misura.
Quindi le obbligazioni avevano ancora un rendimento molto basso, mentre le azioni scontavano i timori di una recessione che tassi in crescita e liquidità sempre meno abbondante avrebbero portato. Un vero e proprio disastro per i risparmiatori, delusi e disorientati.
Ad esempio, il portafoglio costituito da Treasury Bond a 10 anni del Governo USA per il 60% e dall’indice S&P 500 (che raccoglie le maggiori 500 società del listino statunitense) per il 40% ha perso l’anno scorso ben il 17%: la terza peggior performance degli ultimi 100 anni dopo il 1931 e il 1937.
Nel 2021 il portafoglio tipo 60/40 aveva invece guadagnato il 15% e l’anno prima il 15,3% grazie alle buone performance dell’azionario, pur con un mercato obbligazionario asfittico e sicuramente deludente.
Quest’anno la situazione è tornata ad una relativa normalità, perché è vero che il mercato azionario non è stato brillantissimo, dopo l’ottima partenza del mese di gennaio, ma – d’altra parte – le obbligazioni stanno tornando, dopo molto tempo, a essere interessanti. È quindi l’occasione per parlare di questa componente fondamentale degli investimenti, che i risparmiatori possono ora tornare a prendere in considerazione dopo anni di performance deludente.
È opportuno premettere che ancora non è il momento di buttarsi anima e corpo nell’acquisto del reddito fisso: questo momento arriverà quando la parabola dei tassi, ancora in crescita, comincerà a invertire la tendenza e a diminuire. A quel punto, infatti, i prezzi delle obbligazioni raggiungeranno il loro punto di minimo, per poi tonare a crescere al calare dei tassi[1]. Perciò quello sarà il momento giusto per concentrare gli acquisti, in modo da trovarsi con titoli che avranno uno stabile rendimento superiore a quelli correnti di mercato e i prezzi delle obbligazioni in portafoglio cominceranno a crescere, originando possibili guadagni in conto capitale.
In questo momento la situazione sul fronte dei tassi di interesse si presenta piuttosto fluida. Da una parte le autorità monetarie ritengono l’inflazione ancora troppo distante dall’obiettivo dichiarato del 2% annuo e confermano la continuazione della politica monetaria restrittiva, con gli aumenti già in qualche modo preannunciati (da 0,25 a 0,50 per cento nel prossimo mese). Dall’altra parte i sensibili miglioramenti del tasso globale di inflazione - dovuti più che altro al calo di prezzo dei prodotti energetici mentre la cosiddetta inflazione core, ovvero quella al netto dell’energia, resiste ancora intorno al 7% - e soprattutto i timori di una forte recessione inducono i mercati a ritenere che ci debba invece essere un ammorbidimento.
Questo è il motivo per cui c’è stato un sensibile risveglio di interesse degli investitori per le obbligazioni, strumenti che negli ultimi anni avevano dispensato ben più dolori che gioie. Tassi intorno al 5-6% per titoli con scadenze sui 10 anni cominciano ora a diventare interessanti, in un momento in cui le azioni sembrano entrate in un cono d’ombra, destinato ad essere ancora più buio se i timori di recessione dovessero materializzarsi.
Abbiamo detto più volte che una quota di reddito fisso (termine che comprende tutte le tipologie di obbligazioni, comprese quelle a tasso variabile) è giusto che sia presente in ogni portafoglio che vuole essere equilibrato e razionale, anche se nell’immediato il rendimento è molto contenuto. I tassi variano infatti con grande rapidità, ed è un attimo trovarsi troppo esposti sull’azionario se il mercato si gira male, con asset minusvalenti e immobilizzati.
Le obbligazioni hanno infatti la caratteristica che, se comprate bene, possono essere tenute tranquillamente in portafoglio e continuano a generare reddito, anche se il prezzo di mercato diminuisce. Se l’emittente non fallisce, infatti, alla scadenza verranno rimborsate al loro valore nominale e ogni tre o sei mesi pagano la cedola. Le azioni invece distribuiscono dividendi ma solo se la società consegue profitti (e in questi frangenti le performance aziendali tendono ad essere deludenti) e soprattutto fanno poi fatica a recuperare cali di notevole entità.
La nostra preferenza, proprio per la caratteristica sopra menzionata, è quella per gli acquisti sotto la pari, cioè ad un prezzo inferiore a 100. È vero che da un punto di vista meramente finanziario c’è equivalenza fra titolo sopra la pari con cedola superiore ai tassi correnti – da un lato – e titolo sotto la pari con cedola inferiore. Ma da un punto di vista psicologico, trovarsi con una sia pure piccola “riserva latente” può essere più tranquillizzante: se paghiamo un titolo 98, alla scadenza verrà comunque rimborsato a 100 e avremo 2 di guadagno in conto capitale.
Una volta definita, con l’asset allocation strategica, la quota da investire in obbligazioni – diciamo che attualmente potrebbe situarsi fra il 10 e il 15% complessivo – si tratta di sceglierne con attenzione la tipologia. In primo luogo, è necessario prestare attenzione all’emittente (distinguendo fra investment grade e high yeld[2]); poi la scadenza (che può andare da alcuni mesi a 5-10 anni e anche di più, fino ai cosiddetti perpetual) e infine le caratteristiche del titolo come periodicità della cedola, tasso fisso o variabile, possibilità di richiamo prima della scadenza e grado di subordinazione.
Quest’ultima caratteristica è di grande rilevanza, e occorre averla ben chiara prima di procedere all’acquisto. Normalmente le obbligazioni sono senior, ovvero in caso di default dell’emittente vengono rimborsate prima di diverse altre passività e certamente prima delle azioni. Esistono però anche obbligazioni junior, ovvero subordinate che in caso di default vengono rimborsate per ultime, subito prima del capitale sociale rappresentato dalle azioni. In genere si tratta, in quest’ultimo caso, di titoli piuttosto complessi e rischiosi che, proprio per questo, offrono tassi di interesse più alti ma la cui negoziazione è in genere riservata a investitori professionali.
[1] Il prezzo di mercato dei titoli obbligazionari ha una correlazione inversa con il tasso di interesse: se aumentano i tassi, il prezzo diminuisce e viceversa. Il motivo di questa relazione e il meccanismo lo abbiamo spiegato nell’editoriale “Bond, il mio nome è Bond” del 2/2/2023 (cfr https://www.marcoparlangeli.com/2023/01/31/bond-il-mio-nome-e-bond )
[2] Si definisce investment grade un titolo emesso da soggetti che hanno rating di BBB o superiore, e quindi considerati molto affidabili; mentre gli high yeld sono titoli ad alto rendimento, e quindi considerati dagli analisti più rischiosi
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