Cosa faranno un miliardo di persone in più? Intervista a Domenico de Masi (Terza Parte)

Cosa faranno un miliardo di persone in più? Intervista a Domenico de Masi (Terza Parte)

Mar, 09/25/2018 - 07:12
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Pubblichiamo la terza e ultima parte dell’intervista al sociologo Domenico De Masi sull’analisi e le prospettive del lavoro nell’epoca digitale.

La prima puntata è stata pubblicata l’11 settembre, la seconda il 18 settembre.

Buona lettura, dunque.

 


 

Il tuo recente libro Lavorare gratis lavorare tutti comincia dal constatare il senso comune di quasi vergogna di chi ha perso il lavoro, come se avesse perso il motivo di stare nella società. Stiamo andando verso un mondo in cui ci dovremo vergognare tutti perché il lavoro non ci sarà per nessuno?

Anche qui vediamo i dati.

Quando sono in aula ho davanti a me 200 ragazzi di vent’anni. Ognuno di loro male che vada vivrà 80 anni. 60 anni di lavoro sono 530.000 ore circa. Cosa farà in questi 60 anni? Immaginiamo che il nostro studente si laurei a 25 anni, che trovi lavoro immediatamente e che lavori fino a 65 anni ininterrottamente: 40 anni di lavoro, per 1,800 ore l’anno. Immaginiamo che faccia il manager, per cui lavorerà anche di più: 2.000 ore all’anno per 40 anni sono 80.000 ore. 530.000 ore di vita, di cui 80.000 le trascorrerà a lavorare. Il suo trisavolo viveva 350.000 ore e ne lavorava 150.000, già qui c’è un’enorme differenza. Al nostro giovane restano 450.000 ore. Se passa 8/9 ore a giorno per dormire e la cura del corpo (quello che gli inglesi definiscono care), per 220.000 ore, gli resetano ancora 230.000 ore di totale non lavoro e non care.

Nel 1930 Keynes fece una bellissima conferenza a Madrid, intitolata “Prospettive per i nostri nipoti”. Si mise nei panni di un giovane che avesse 20 anni nel 2030. Per evitare disoccupazione di massa, che può diventare violenta, il maestro profetizzò che si sarebbe dovuti arrivare a 15 ore settimanali. A quel punto il problema non sarà la produzione, e neppure il consumo: Sarà cosa fare del tempo libero.  L’unica salvezza sarà la cultura, con la quale si dovranno riempire le 230.000 ore (ma saranno certamente anche di più).

O si torna al mondo dei Greci, e questo Keynes non lo dice, o si diventa un mondo di ebeti, che non sa che fare dalla mattina alla sera.

 

In uno dei tuoi libri, tu dicevi che è proprio dell’uomo resistere a questo cambiamento: anche se non ne abbiamo bisogno, continuiamo a vivere coi tempi e i ritmi della società industriale. Otto ore di ufficio, alla stessa ora, d’agosto al mare tutti insieme e così via.

In realtà questo con molta lentezza sta cambiando, al contrario di quello che pensavo. Il telelavoro oggi si è diffuso e sviluppato. Il mio primo libro sul telelavoro è di metà anni 90, sembrava un’utopia. Oggi l’INPS, non l’IBM, ha 3.000 persone in telelavoro. Se vai in treno, senti tutti che stanno telefonando per lavoro: non è anche questo vero e proprio telelavoro?

Ha stravinto sul piano reale, anche se non ancora su quello formale.

I mutamenti culturali sono lenti, occorre cambiare la testa e ci vuole tempo, ma i mutamenti ci sono perché le tecnologie sono talmente pervasive e migliorative che si impongono.

Cosa succederà quando, fra pochi anni, noi saremo un miliardo in più e il lavoro sarà molto meno? Il modello di vita che abbiamo è pensato sulla fabbrica.

 

Allora se tu dovessi riscrivere l’articolo 1 della Costituzione?

Questo si può capire perché all’epoca era sacrosanto contrapporre l’idea del lavoro all’idea fascista.

Oggi, se 80.000 ore di lavoro su 530.000 di vita sono 1/7, quell’articolo suonerebbe così: l’Italia è una Repubblica democratica fondata su un settimo della vita.

Probabilmente non c’è più una cosa su cui fonda un paese, Potrebbe fondarsi sulla felicità, ovvero sulla minima infelicità.

Oggi si continua a parlare di “centralità del lavoro”, ma non è più così: lo studente, il disoccupato, il pensionato, messi insieme fanno la maggioranza del paese. In più, quelle che lavorano davvero, le casalinghe, non vengono considerate lavoratrici.

 

Una battuta su quello di cui ti stai occupando ora, il turismo, se vogliamo un’attività tradizionale, Questa tua esperienza come si può applicare al turismo? Ci dà qualche spunto interessante per chi vuole avviare un’imprenditoria turistica di livello?

Intanto il turismo non è affatto tradizionale, ma è una forma recentissima di attività umana. E’ nata con il treno. Fino ad allora le erranze umane erano dovute a grandi alluvioni, ai militari o alle migrazioni per mancanza di lavoro. Erano tutte coatte; l’unica forma non coatta era la villeggiatura. Era quella del nobile che aveva una seconda casa, non distante dalla prima. Si andava per il fresco, ma soprattutto, essendo l’epoca post-mietitura, per riscuotere quanto dovuto dai mezzadri.

La forma che vi si può avvicinare era il grand tour del ‘700, assimilabile all’attuale Erasmus: il giovane Goethe o Stendhal, arrivata una certa età, facevano un viaggio per formazione in Italia o in Grecia. Per apprendere la cultura latina e la cultura greca.

Il turismo è nato cento anni dopo l’industria. Il turismo è quasi inspiegabile: perché un miliardo di persone si mette in viaggio, senza avere la seconda casa, spesso per stare peggio che a casa e spendendo di più?

Ci sono molte teorie. Fin quando avevi la catena di montaggio, non potevi mandare in vacanza a scaglioni. Così nacque il concetto di ferie, La prima fu la Francia, ma siamo già alla fine dell’800, a normare le ferie.

 

Si potrebbe assumere che l’uomo abbia una connotazione nomade nel proprio bagaglio cromosomico.

E’ una delle possibili spiegazioni. Ma il turismo per la massa non ha nessuna delle caratteristiche del nomadismo o del viaggio secondo Chatwin. Pensa alle navi da crociera immense, in cui si soggiorna in “appartamenti” piccolissimi e rumorosi. Eppure si paga, mentre in fabbrica sei pagato.

E’ un mistero.

 


 

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DOMENICO DE MASI, Nato in Molise nel 1939, cresciuto in Campania e in Umbria, è oggi probabilmente il più autorevole sociologo italiano, soprattutto nel campo del lavoro. Professore emerito di Sociologia del lavoro presso l'Università “La Sapienza” di Roma, dove è stato preside della facoltà di Scienze della comunicazione, De Masi è autore di numerose pubblicazioni di successo e immancabile ospite di trasmissioni televisive e giornali quando si parla di lavoro.

Fra i suoi saggi più noti, “L’ozio creativo” del 2000 nel quale teorizza la valorizzazione del tempo “liberato” dal lavoro come ritorno a un’organizzazione di vita in cui, grazie al progresso, l’uomo può dedicarsi a coltivare arte, cultura, affetti e conoscenze.

 

Nella biografia pubblicata sul suo sito www.domenicodemasi.it si legge che:

si è dedicato prevalentemente allo studio e all’insegnamento.

 Ha viaggiato molto ma i centri principali del suo lavoro sono stati
Milano, Sassari, Napoli e Roma.

 In Brasile – dove ha la cittadinanza onoraria di Rio de Janeiro –
ha tenuto conferenze in quasi tutte le grandi città.

 La sua biografia è suddivisa in paragrafi corrispondenti ai vari segmenti di vita: la famiglia e gli studi; i campi di attività; il periodo napoletano, milanese e romano; l’insegnamento a Sassari, Napoli e Roma; la scuola e poi la società S3.Studium; gli altri impegni professionali e civili; i viaggi in Brasile e in molti altri paesi del mondo; i riconoscimenti ricevuti.