L’ECONOMIA DEI DISASTRI
Cosa succede in economia in caso di disastri naturali, guerre, pandemie
L’anno da poco trascorso non ci ha davvero risparmiato eventi disastrosi e tragici, primo fra tutti la pandemia che, con le nuove varianti del coronavirus, ha avuto un preoccupante ritorno di fiamma nonostante la diffusione dei vaccini su larga scala.
Focolai di guerra sono attivi in diverse regioni del pianeta, a partire dall’Africa (un po’ ovunque) e dall’Asia (Afghanistan, Indonesia e Myanmar, solo per citare i più cruenti). Si profila poi, proprio nel cuore dell’Europa, un conflitto che - per la prima volta dal dopoguerra – rischia di coinvolgere le grandi potenze mondiali.
Disastri naturali (in primo luogo i terremoti, fra i quali Creta a settembre, il Perù a novembre e l’Indonesia a dicembre) si sono ripetuti un po’ dappertutto: una primaria compagnia assicuratrice ha stimato che il 2021 è stato il quarto peggior anno di sempre per entità dei disastri naturali. Solo quelli relativi a beni assicurati hanno raggiunto l’entità di 105 miliardi di dollari. Il paese più colpito sono stati gli USA: tutti abbiamo vivo il ricordo dell’uragano Ida, delle inondazioni di New York, della tempesta invernale Uri in Texas – con i blackout frequenti e prolungati – e in Messico. Ma anche le inondazioni nel Nord Europa (Germania, Belgio e Olanda) con il pesante fardello dei 242 morti.
Di fronte a tanta devastazione, a danni così ingenti e all’enorme numero di morti, a parte le considerazioni umanitarie che sono ovviamente prevalenti, è opportuno chiedersi quali effetti si verifichino sull’economia mondiale e come l’umanità – nel suo complesso – possa far fronte agli oneri che i disastri comportano.
Alcune teorie economiche, molto popolari nel secolo scorso e nel precedente, affermavano che alla base dei cicli economici ci sono i movimenti demografici: è la dinamica delle popolazioni che determina l’andamento della domanda, della produzione, dei prezzi e in ultima analisi del livello della qualità della vita. Lo sviluppo è innescato da una crescita naturale della popolazione che, alimentando la domanda, stimolerebbe la produzione globale e l’efficienza delle imprese. Successivamente, dato che le risorse non sono infinite ma limitate e che la produttività non può crescere secondo i bisogni ma è vincolata dalle tecnologie disponibili, si determina un graduale ma inesorabile aumento dei prezzi fino a che la situazione non diviene insostenibile.
La crescita demografica avviene infatti con progressione geometrica, mentre la crescita delle risorse solo con progressione aritmetica, per cui a un certo punto si verifica una situazione di rottura. Anche la dinamica finanziaria tende al disastro a iniziare dal debito pubblico che, alle prime difficoltà, comincia a crescere a dismisura.
Ecco quindi che, in una sorta di auto-regolamentazione, intervengono appunto le catastrofi (pandemie, guerre, carestie epocali) che riducono drasticamente la popolazione e, seppure in modo tragico, riequilibrano le grandezze economiche. La grande inflazione azzera o comunque riduce sensibilmente il valore reale del debito pubblico e di quello privato; il minor fabbisogno di alimenti e risorse in genere riporta la situazione fra domanda e offerta a un livello di sostenibilità, e il ciclo può ricominciare.
La base di queste teorie evoluzioniste è la dottrina di Thomas Robert Malthus elaborata alla fine del XVIII secolo con An essay of the principle of the population as it affects the future improvement of society (Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società), ampiamente ripresa da Darwin circa un secolo dopo e rielaborata da numerosi altri studiosi. In questa logica, come abbiamo visto, anche le grandi tragedie dell’umanità, come quelle di cui si faceva cenno all’inizio, avevano un loro senso e una loro funzione economica.
Ma tutto questo è ancora valido oggi?
Purtroppo no, ammesso e non concesso che in passato sia stato valido. Vediamo perché e soprattutto cerchiamo di capire cosa dobbiamo aspettarci, in termini di macrotrends, dai disastri in corso (e da quelli venturi, ahimè).
Intanto l’elasticità della domanda alla popolazione varia molto in relazione al livello di benessere. Per effetto della diversa propensione al consumo, si può ritenere che l’incremento di domanda sia notevole solo quando si passa da uno stato di povertà a uno di sia pur limitato benessere. In quel caso numerosi bisogni si manifestano e da potenziali diventano effettivi. Se però è la popolazione già ricca che aumenta (caso piuttosto difficile) o quella che resta povera (il caso purtroppo più frequente), non sono da aspettarsi effetti significativi sulla domanda aggregata.
Stesso ragionamento per la domanda di spesa pubblica da parte degli Stati: nei paesi del terzo mondo, salvo il caso di massicci aiuti umanitari, la crescita della popolazione non comporta aumento dei programmi governativi perché le risorse sono comunque insufficienti.
Al giorno d’oggi sappiamo che le cause dell’inflazione possono essere molteplici, ma certamente fra le principali non è compreso l’aumento della popolazione, che ha un effetto molto limitato, proprio per quello che dicevamo sopra.
Inoltre i disastri (sia naturali che innescati dall’uomo) hanno oggi un impatto sulla popolazione certamente importante ma numericamente molto meno consistente di quelli di una volta. Il progresso tecnologico, medico e scientifico ha molto ridotto la letalità sia dei virus sia dei terremoti e delle inondazioni.
I grandi terremoti della storia, si pensi a quello della Sicilia Sud orientale del 1693, quello di Messina del 1783 o quello in Calabria del 1905, ebbero l’effetto di decimare (letteralmente) il numero degli abitanti delle regioni colpite; oggi in genere le vittime sono molto meno numerose, sia per la diffusione delle tecniche di costruzione antisismiche, sia per la maggior celerità ed efficacia della rete dei soccorsi. E questo nonostante la densità di abitanti delle zone colpite, generalmente molto maggiore che in passato.
La “guerra che purifica” è ormai un retaggio della storia; tuttavia alcune conseguenze economiche negative sono probabili, se non certe.
Intanto l’inflazione, che sicuramente riceve uno stimolo per la diminuzione improvvisa dell’offerta (molte fabbriche in tempo di guerra o di disastri devono chiudere), a fronte dell’incremento della spesa pubblica di natura essenzialmente bellica. La disponibilità di prodotti e materiali naturalmente diminuisce, anche perché i commerci internazionali si fermano e i produttori nazionali faticano a coprire tutta la domanda interna, oltre a ridurre drasticamente le esportazioni.
Il debito pubblico continua ad aumentare e lo Stato tende a trovarsi in sempre maggiori difficoltà finanziarie, anche perché il gettito tributario normalmente diminuisce. I settori produttivi, direttamente o indirettamente collegati all’industria bellica, ne saranno di sicuro avvantaggiati, mentre il resto dell’economia non può che risentirne negativamente. I mercati finanziari – come si è visto anche recentemente alla notizia della diffusione della pandemia e poi della sua recrudescenza, ma anche quando i timori per la situazione in Ucraina si sono fatti più incombenti – rispondono con crolli improvvisi e profondi, impiegando poi molto tempo a tornare ai livelli precedenti la crisi.
E’ vero che rispetto al passato, i mercati finanziari hanno oggi più strumenti e maggior capacità di resistenza agli stress, ma è altrettanto vero che eventi tragici e devastanti lasciano molti strascichi e rendono i sistemi ancora più deboli e vulnerabili. Se nel caso di eventi naturali come i terremoti è difficile sottrarsi alle conseguenze economiche e finanziarie negative o devastanti, almeno per quello che dipende dall’uomo – come nel caso della guerra e, in minor misura, dei danni conseguenti a alluvioni e inondazioni – è completamente incomprensibile e idiota il ricorso alla guerra.
Non solo queste catastrofi non eliminano le distorsioni epocali – come la teoria malthusiana riteneva – ma anzi producono effetti devastanti che peggiorano le condizioni di vita di tutti.
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