IL MINIMO DEI MINIMI

IL MINIMO DEI MINIMI

Mer, 08/16/2023 - 23:34
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Salario minimo per legge a 9 Euro l’ora: misura giusta, utile o solo demagogica?

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Il tema clou di questa calda estate del 2023 è sicuramente quello del salario minimo. Diciamo subito: che la retribuzione dei lavoratori debba essere non solo equa, ma soprattutto commisurata al fabbisogno per una vita decorosa per loro e per le loro famiglie è un principio assolutamente condivisibile e dovrebbe essere alla base di ogni convivenza civile. Tanto più da noi, dove la Costituzione definisce la Repubblica “fondata sul lavoro”.

Come sarebbe possibile che uno Stato fosse basato su un lavoro che non fornisce neanche il reddito minimo per la sopravvivenza? Senza arrivare ai principi cristiani di dignità e solidarietà, è di tutta evidenza che un salario che non fornisce i mezzi per vivere non può essere accettato.

Detto questo, il dibattito che le opposizioni (Partito Democratico e Movimento 5 Stelle) hanno introdotto sulla proposta di prevedere per legge una retribuzione oraria minima di 9 euro l’ora, è da un lato inutile, dall’altro populista e fuorviante. Vediamo perché.

Innanzitutto, il problema delle retribuzioni è non solo di natura sociale, ma anche e soprattutto di natura economica. Il lavoro è uno dei classici fattori produttivi (terra, lavoro e capitale) e il salario ne rappresenta la retribuzione (come la rendita è la retribuzione del fattore terra e il profitto del capitale). Secondo la teoria marxista, sintetizzata e banalizzata, il lavoro costituisce la base del valore di merci e servizi, mentre tutto quello che eccede il suo costo rappresenta “plusvalore”, di cui il capitale si appropria e attraverso il quale esercita il suo potere oppressivo e coercitivo sul proletariato. Nella società socialista, secondo il barbuto di Treviri, si dovrebbe avere “da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo il suo bisogno”.

.salario di sussistenza

Se lo Stato dei Soviet si fosse effettivamente sviluppato secondo i principi marxisti, e non attraverso la feroce dittatura staliniana e la difesa dei privilegi della nomenklatura, l’abolizione della proprietà privata avrebbe assicurato proprio la sussistenza a tutti, indipendentemente dal valore del loro lavoro.

Il fatto che la storia abbia definitivamente condannato e sconfitto il modello marxista non dimostra che quel modello fosse sbagliato ma solo che la sua applicazione concreta è stata fallimentare. Il sistema in cui siamo inseriti è quello capitalista o di mercato, che oggi quasi più nessuno mette in discussione, e che è invece basato sul concetto di “produttività” e del valore di scambio.

Il lavoro non è più un valore in sé stesso, ma se e in quanto concorre a produrre ricchezza, attraverso la trasformazione delle materie prime e il valore aggiunto. Se il mercato attribuisce più valore al prodotto che al costo delle materie prime impiegate per realizzarlo, allora il lavoro ha una funzione economica e quel valore rappresenta una misura della retribuzione massima che può essere erogata in una situazione di equilibrio. Il valore aggiunto costituisce (a livello aggregato) il reddito nazionale lordo ed è la somma delle retribuzioni dei diversi fattori  produttivi impiegati nel processo.

La misura in cui il valore aggiunto (la ricchezza creata in un sistema) viene ripartito fra i fornitori dei diversi fattori (non solo terra, lavoro e capitale, ma anche amministrazione pubblica e attività imprenditoriale) è la risultante dei loro diversi rapporti di forza, che naturalmente cambiano nei vari momenti storici a seconda della loro disponibilità e del loro prezzo.

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Tornando al nostro problema, il primo punto da valutare è quindi quello della produttività del lavoro, ovvero del suo contributo alla creazione di ricchezza. Se questo è inferiore al livello di sussistenza, la differenza deve essere colmata da qualcuno: dall’imprenditore (se riduce i suoi margini di profitto o aumenta le sue perdite), dal consumatore (se l’impresa riesce ad aumentare i prezzi trasferendo sui suoi clienti questo costo) o più probabilmente dallo Stato attraverso le politiche di assistenza e i sussidi.

Quindi parlare di un livello uniforme dei salari senza considerare la produttività del lavoro, è una prima forzatura di natura economica. Il che non vuol dire che debba essere respinta a priori: basta capire chi paga la differenza fra il salario “di mercato” e quello minimo.

Ma il vero problema è capire qual è la misura giusta del salario, sia dal punto di vista del lavoratore che dell’impresa. Chi ha stabilito che 9 euro è un minimo giusto o accettabile? E perché non 8,5 o 11? E poi: si tratta di una retribuzione lorda o netta? E sulla base di un rapporto regolare con tutte le garanzie previste da legge e contratti di lavoro, tipo ferie, malattia, contributi sociali, e così via oppure no? E con meccanismi di adeguamento all’inflazione oppure no?

È ovvio che in assenza di specificazioni su come è stato calcolato il livello dei 9 euro, esso non ha alcun significato. È una misura populista, utile per la politica che vuole appendere una bandierina, ma di scarsa o nulla applicabilità pratica.

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Il problema maggiore dello sfruttamento del lavoro è infatti quello della sua legalità: chi offre “lavoro nero” è automaticamente fuori dalla legge e il punto non è il livello della retribuzione oraria (ne sarebbe escluso anche se pagasse 50 euro l’or a) ma l’assenza di contratto e di tutela complessiva al lavoratore. Non è pensabile che chi è già fuori dalla legge voglia adeguare il salario minimo a quello di legge, perché se funzionassero strumenti di controllo o di deterrenza, basterebbe agire sui contratti nazionali.

Non sappiamo se esistono contratti nazionali che prevedano retribuzioni orarie (lorde) inferiori a 9 euro; certo è che in quel caso adeguare il livello minimo ai 9 euro sarebbe comunque una cosa buona e giusta. C’è sempre il rischio di un livellamento in basso, nel senso che alcuni contratti che hanno livelli minimi superiori possano essere portati a 9 euro, ma francamente ci sembra un’ipotesi lontana.

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In conclusione, va bene il salario minimo a 9 euro ma senza farsi troppe illusioni in merito alla reale portata di questa misura sulle condizioni effettive dei lavoratori. Ben più importante sarebbe la definitiva cancellazione del lavoro nero e l’applicazione di misure di sicurezza effettiva sul lavoro in modo da evitare il vero cancro da cui è afflitto – in questo settore - il nostro paese: quello delle morti sul lavoro. Ma questa è un’altra stori