NEET: DIVISI FRA CURRICULUM E NETFLIX
Il fenomeno dei NEET: giovani che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione
Il consueto Forum Ambrosetti di Cernobbio si è tenuto quest’anno in singolare coincidenza con la scomparsa del fondatore del prestigioso network, una delle prime società di consulenza aziendale specializzata in formazione e coaching delle risorse umane. Viene da pensare che il mondo in cui ha vissuto e lavorato Alfredo Ambrosetti, nato a Varese 94 anni fa, era completamente diverso da quello odierno, e che certo nessuno pensava, negli anni ’70 del secolo scorso (la Società è stata costituita nel 1974 e il primo Forum si è tenuto nel 1975) al fenomeno dei NEET, i giovani che, non studiano, non lavorano né sono alla ricerca attiva di un’occupazione (dall’acronimo inglese not in education, employment, or trading).
E invece il segnale forte e chiaro lanciato da Villa d’Este sul Lago di Como, quest’anno è proprio di preoccupazione per questo fenomeno giovanile che interessa nel nostro paese 1,4 milioni di ragazzi fra 15 e 29 anni, ovvero circa il 15% del totale, con punte preoccupanti fra le giovani donne (69%) e al Sud (46%). Pur in calo (modesto) rispetto al passato, questo dato imbarazzante è il più elevato dell’Unione Europea e grava sulle deboli spalle del nostro sistema economico con un costo che è stato stimato in circa 25 miliardi di euro, quasi quanto l’ultima manovra finanziaria (da 28,4 miliardi) e pari all’1,23% del PIL.
Questi numeri impietosi raccontano una storia di vulnerabilità e di sospensione: una fascia di popolazione che rischia di restare ai margini della società produttiva e di veder compromesse le proprie opportunità di crescita. Essere NEET, infatti, non è solo una condizione transitoria: numerosi studi mostrano come periodi prolungati di inattività possano generare effetti duraturi, dal punto di vista psicologico e professionale. Restare NEET non è soltanto un “anno sabbatico allungato”. È una condizione che lascia cicatrici profonde: perdita di competenze, isolamento sociale, calo di autostima e difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro.
Dal punto di vista collettivo, poi, i numeri fanno paura. Ogni giovane inattivo è un pezzo di capitale umano non utilizzato, un mancato contributo in termini di produttività, tasse e innovazione. In pratica, meno crescita per il Paese e più spese in welfare.
Quali sono le cause di questa situazione? Il fenomeno dei NEET ha radici molteplici e complesse, che si intrecciano tra loro. Un primo fattore riguarda le fragilità del sistema educativo: in Italia i tassi di abbandono scolastico sono ancora elevati, soprattutto nel Mezzogiorno, e le connessioni tra scuole, università e mercato del lavoro restano deboli. A questo si aggiunge la scarsa diffusione dell’apprendistato e di percorsi di formazione tecnica professionalizzante, che altrove, ad esempio in Germania, hanno svolto un ruolo decisivo nell’inserimento lavorativo dei giovani.
Un secondo fattore è legato al mercato del lavoro. La disoccupazione giovanile, pur in calo rispetto ai picchi successivi alla crisi del 2008 e a quella pandemica, rimane strutturalmente alta. Molti giovani si scontrano con contratti precari, stipendi bassi e difficoltà ad accumulare esperienze significative. Per chi entra ed esce continuamente da lavori instabili, il rischio di scivolare nell’inattività è elevato.
Non meno rilevante è la dimensione sociale e familiare. In un Paese dove la permanenza in casa dei genitori si protrae più a lungo che altrove, la condizione di NEET può essere favorita da reti familiari che garantiscono un sostegno economico ma non sempre stimolano all’autonomia. Inoltre, fattori come disuguaglianze territoriali e background socioculturale giocano un ruolo importante.
Infine, la pandemia di Covid-19 ha probabilmente avuto un effetto aggravante: la chiusura delle scuole e delle università, il blocco delle assunzioni, la precarietà diffusa hanno spinto nuove fasce di giovani nella condizione di NEET, ampliando le disparità preesistenti.
Non è mancata l’attenzione politica. Programmi come Garanzia Giovani hanno provato a favorire l’inserimento lavorativo con tirocini e incentivi, ma i risultati sono stati disomogenei: in alcune aree hanno funzionato, in altre si sono tradotti in esperienze brevi e poco incisive.
Il PNRR ha poi stanziato risorse per la formazione digitale e green, potenziando ITS e politiche attive. Ma resta da capire se queste misure riusciranno a produrre un cambiamento strutturale o se resteranno iniziative episodiche.
L’evoluzione del fenomeno dipenderà dalla capacità di colmare i divari che oggi alimentano il problema. Rafforzare il legame tra scuola e lavoro, migliorare la qualità dei contratti, ridurre i divari Nord-Sud, sostenere il benessere psicologico dei giovani: sono questi i punti chiave.
Non si tratta di “attivare i fannulloni”, come talvolta una narrazione superficiale ha suggerito, ma di costruire condizioni reali di partecipazione. Non è che i giovani non abbiano voglia di lavorare, ma spesso tra fare fotocopie gratis (dopo aver inviato nel nulla valanghe di curriculum) e restare a casa su Netflix, la seconda alternativa sembra addirittura più dignitosa. Dietro a ogni NEET non c’è solo un ragazzo annoiato con lo smartphone in mano, ma una storia di ostacoli, fallimenti e mancate opportunità.
Il rischio è che il fenomeno diventi cronico. Un’intera generazione che resta “in pausa”, mentre il resto del mondo corre. Ironizzare con etichette come “NEETflix” aiuta a catturare l’attenzione, ma il nodo resta drammatico: senza un cambio di passo, milioni di giovani rischiano di vedere il futuro ridotto a una serie infinita di puntate già viste.
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