L’ELOGIO DELLA FOLLIA
L’apparente follia di Trump è un espediente non nuovo nella storia di potenti e tiranni
Alzi la mano chi, sentendo una delle tante clamorose dichiarazioni out of the blue del fantasmagorico Presidente Usa Donald Trump, non ha pensato, almeno una volta “ma questo è pazzo”, o meglio ancora “ma ci è o ci fa?”
Dopo i primi nove mesi di governo, probabilmente la risposta giusta è che il tycoon non è affatto pazzo, ma che usa far credere di esserlo per realizzare meglio i suoi obiettivi. Come diceva Polonio a proposito del Re di Danimarca, nell’Amleto di Shakespeare: “c’è del metodo in questa follia”.
Del resto, la storia ci ha più volte proposto personaggi importanti, perlopiù dittatori o comunque uomini investiti di grande potere, che sono stati considerati del tutto o in parte pazzi, e proprio questa valutazione ha portato nemici e interlocutori ad abbassare la guardia e a spianare la strada verso conquiste e obiettivi azzardati. Uno per tutti: Hitler, considerato da Chamberlain – il premier inglese del tempo - “pazzo megalomane” e tuttavia degno di attendibilità quando diceva di non volersi espandere. Sappiamo tutti come è poi andata a finire.
Ma l’elenco dei folli eccellenti potrebbe continuare a lungo: Woodrow Wilson, Nikita Krusciov, Gheddafi, Saddam Hussein, fino a Re Giorgio III d’Inghilterra. Tutta gente che forse ha avuto qualche momento di demenza o confusione mentale, ma che certamente ha conseguito importanti e talvolta clamorosi obiettivi, proprio nascondendosi dietro il paravento della follia.
Trump ha più volte smentito sé stesso a distanza di pochi giorni, o talvolta di poche ore (basti pensare a come ha trattato o definito il povero Zelensky nel corso dei loro tormentati rapporti), ha spiazzato tutti lanciandosi all’attacco di alleati storici quali Europa e Canada, ha più volte offeso e poi osannato Putin, per non parlare del leader Nordcoreano Kim Jong-Un o del suo omologo cinese Xi Jinping. Molto spesso è risultato difficile capire cosa davvero pensasse Trump e dove volesse andare a parare.
Ma a ben guardare, oltre che imprevedibile e velocissima (una velocità fino ad ora sconosciuta nell’avviare e perseguire linee politiche), la strategia trumpiana è sicuramente ambiziosa e, in qualche modo, rivoluzionaria.
Cominciamo dai dazi. L’assunzione iniziale “mettiamo le tariffe per riequilibrare il deficit commerciale” è vera solo parzialmente. Certamente l’imposizione di dazi all’importazione potrebbe migliorare la bilancia commerciale USA, ma effetti altrettanto sicuri a medio-lungo termine sono: l’aumento dell’inflazione, la difficoltà a reperire materie prime, l’arretratezza del sistema produttivo (non più stimolato dalla concorrenza con gli stranieri), la diminuzione del benessere dei consumatori.
In realtà, il vero scopo sembra essere quello di far acquisire al bilancio pubblico risorse fiscali che potessero compensare i tagli di imposte promessi ai contribuenti, specie quelli più facoltosi. In pratica, Trump mira a finanziare lo sviluppo industriale e la crescita del PIL interno mettendo il conto a carico degli esportatori esteri, anziché – come è successo fino ad ora – dei sottoscrittori del sempre crescente debito pubblico USA.
Anche perché con i maggiori sottoscrittori dei Treasury Bonds, i cinesi, i rapporti sono tutt’altro che lineari. Di certo, il biondo Presidente usa essere forte con i deboli, ma molto debole con i forti. Con il celeste impero, in particolare, nonostante la forte disparità dei flussi commerciali, la vicenda dei dazi è stata gestita in modo molto più tranquillo rispetto a quanto è stato fatto con paesi culturalmente e politicamente più vicini.
Anche con l’orso russo, al di là di qualche dichiarazione falsamente bellicosa, il pedale dell’acceleratore della polemica non è mai stato schiacciato fino in fondo. Trump era convinto, in virtù dei suoi rapporti personali con lo zar, di poter risolvere la guerra mossa all’Ucraina in 48 ore. Sono passati mesi, e i carrarmati sono ancora schierati nel confine caldo, mentre i droni continuano a colpire, da entrambe le parti, popolazione civile. Minacce neanche tanto convinte, e definizione di “tigre di carta” per la Russia, ma fatti concreti ben pochi. E, soprattutto, nessun reale avanzamento verso una pace – o quanto meno un cessate il fuoco – che sembra ogni giorno più lontana.
Viene da chiedersi quali siano le 7 guerre che Trump ha fatto cessare in questi mesi. Un’evidente autocandidatura per il premio Nobel per la pace, per non essere da meno del suo predecessore Barack Obama, ma ancora una volta nessuna reale motivazione.
Il punto vero è che Trump è quasi totalmente indifferente a quello che succede in Europa, a Gaza o altrove. La sua unica preoccupazione è quella di catalizzare il consenso interno, in vista delle ormai vicine elezioni di mid-term che potrebbero portare al biondo il controllo totale del Parlamento, come pure un Congresso schierato all’opposizione, che renderebbe molto difficile poter esercitare quel potere assoluto incontrastato teorizzato dalla dottrina MAGA.
Un’ultima notazione, infine, riguarda il cambiamento di rotta a 180 gradi sulle criptovalute. Nel suo primo mandato, Trump si era espresso in modo molto netto contro bitcoin e simili, dicendo che non erano soldi veri, ma solo una truffa. Dopo aver capito quanto poteva giovargli l’appoggio della crypto-community USA (accreditata di circa sessanta milioni di persone), si è convinto ad appoggiare la causa promettendo deregulation, libertà e una riserva strategica in Bitcoin.
Il tycoon punta a utilizzare proprio le stablecoin per creare un fondo garantito e vigilato da organismi pubblici, che in prospettiva possa acquisire i titoli del debito pubblico.
Poi è andato ancora oltre, partecipando al progetto World Liberty Financial con i figli Eric e Don jr insieme a Alex Witkoff, ora consigliere per il Medioriente, che si dice abbia fruttato al Presidente ben 412 milioni di dollari. E con la creazione dei $TRUMP E $MELANIA, altri 385 milioni sono affluiti nelle capienti casse di famiglia, in barba a ogni considerazione sui conflitti di interesse. Perché la politica e le ideologie vanno bene, ma quando si tratta di affari non ce n’è per nessuno.
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